La ragazza di Borgo Naviglio
Ho aperto gli occhi in una notte di febbraio, in via Naviglio a Ostiglia, al numero civico 86. Sono figlia del peccato, poiché mio padre si dileguò nell’ombra. Amico di tanti artisti, alla sua maniera geniale, discreto pittore, buon fotografo, con la passione per la lirica. Conosceva Pier Paolo Pasolini. Mi ha messo al mondo che aveva quarantatre anni; mia madre ventitre.
Sono cresciuta nella casa dei nonni materni: il nonno pescatore sul fiume, la nonna… un angelo custode. La casa, addossata ad altre cento, si affacciava sulla Fossa. Dall’altra parte le siepi di canna decidevano i confini degli orti. Quindici case più in là abitava la sorella del nonno, la zia Elvira. È in quella casa che ho scoperto la musica. Un pomeriggio, nel fienile, all’età di tre anni ho visto una grande fisarmonica buttata da una parte. Quella fisarmonica andavo a trovarla ogni giorno, l’abbracciavo coricata tra il fieno perché ero troppo piccola per poterla indossare. Ci pigiavo le dita, alternandole sugli unici due tasti funzionati, per ore e ore ascoltandone il suono.
Ho vissuto l’infanzia in un mondo d’acqua, pesci, rane, odore di valle e musica (anche mia madre amava cantare), tra la gente semplice di quella contrada .
Avevo poco più di sette anni, quando mia madre disse che bisognava cambiare paese. Non capivo il perché di questo improvviso cambiamento. Si era sposata con un uomo conosciuto durante la monda del riso, nel vercellese. Così, di colpo, mi sono trovata a scoprire, incredula e senza alcuna voglia, la montagna della Val Trebbia, nei dintorni di Bobbio. Luogo che in seguito ho però molto amato.
Avevamo le mucche, le portavo al pascolo sulla collina. Per ingannare il tempo che non passava mai, e per non sentire la paura del silenzio e delle vipere, disegnavo sui fogli con la matita e scrivevo pensierini, che poi la sera regalavo a mia madre.
L’ho persa in poche ore, mia madre, una mattina di novembre, all’età di undici anni. L’uomo che l’ha amata nell’ultima parte della sua vita mi ha sistemato in un orfanatrofio di Piacenza, dal quale sono fuggita dopo poco tempo, con la complicità del nonno.
Tornata nella mia casa sul canale, vicino al fiume, dove sono nata, ho iniziato a scrivere e a disegnare su fogli, che poi ho appeso ai muri della mia camera. La prima poesia scritta l’ho dedicata a Carla, un’amica incontrata sui banchi della scuola di avviamento professionale. Lei e la famiglia mi hanno accolto nella loro casa e nel loro cuore. La poesia è ora perduta, ma l’incipit è scolpito nella mia mente, e vi resterà fin che vivrò. Carla ha lasciato questo mondo troppo presto…
A sedici anni ho conosciuto un ragazzo, che poi ho sposato cinque anni dopo. Suonava la chitarra in un gruppo. Lo guardavo suonare, imparando tutto quello che bisogna sapere per fare musica.
Nel 1970, insieme a una trentina di amici, abbiamo dato vita a La Sòca. Si faceva cabaret, si cantavano le canzoni popolari e quelle meno popolari.
In un giorno di settembre, nel 1973, si è celebrata a Ostiglia la prima festa dell’emigrato. Memore della mia emigrazione forzata in quel di Milano a fine Avviamento, ho tolto dal cassetto dei testi scritti durante quell’esilio e, insieme a mio marito li ho musicati. Poi, con altri componenti del gruppo, abbiamo scritto un copione teatrale, dove pure le canzoni hanno trovato giusta collocazione. È nato così un musical, che per tre anni abbiamo rappresentato nei teatri della provincia. La Sòca si è alla fine sciolta e siamo rimasti in nove. Ci siamo dati un nuovo nome: Quel cha gh’è restà. Il tempo di scrivere un nuovo copione: una commedia musicale sul mondo operaio, mai rappresentata, che anche questo gruppo si è sciolto. Rimasti in tre, questa ennesima band ha però avuto vita breve.
Separata da mio marito, il trio è diventato un duo. Il sodalizio artistico di questo duo è stato lungo e fecondo, ricco di riconoscimenti. Alla fine degli anni ’90 poi, qualcosa ha fatto sì che si spegnesse la gioia, la complicità creativa che ci ha accompagnato per anni. Nel silenzio si è spento un suono che è stato nostro, vitale, perché vero. Ci si è trascinati fino al 2004, poi è finito tutto.
Ma non sono rimasta sola. La musica, la pittura, la poesia mi accompagnano ancora, fino a qui, dove ho trovato altro a cui dire ancora, e sempre, la mia passione per la vita.
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